1 ottobre 2013

Gnocchi di patate

Premettiamo che ogni essere umano e non, risiedente in qualsiasi posto della faccia della terra, la cui forchetta impugnata con la mano forte non abbia mai portato alla bocca uno di questi gnocchi di patate che ora andremo a presentare, non può dire di aver vissuto.

La prima cosa da fare è preparare le patate: lavatele e, senza sbucciarle, mettetele in una pentola con dell'acqua salata a piacere (io non la salo) e lasciatele bollire (oppure va bene anche cotte a vapore, meglio) (le più adatte sono le patate farinose). Già che ci siete preparate anche il sughettino (per i crudisti andrebbe bene fare una bella passata di pomodoro crudo).



Ancora calde, sbucciatele, schiacciatele e mettetele su un piano di lavoro ben infarinato.





Senza aggiungere altro sale, aggiungete un pò di farina e impastate il tutto fino ad ottenere un composto compatto ma allo stesso tempo soffice. A questo punto alcuni ci aggiungono un uovo ma voi non fatelo, basterà un pò di farica di ceci (legante) al posto di quella normale e il gioco è fatto. A proposito di farina, meglio se integrale. Continuate ad impastare fino ad ottenere un impasto senza grumi e compatto.



 Visto che non ci riuscirete, fatevi aiutare.






Quindi, dividete l'impasto in tanti filoni dello spessore di 2-3 centimetri e iniziate a tagliare i vostri gnocchi riponendoli su una superficie o un vassoio infarinato. Per finire, praticate le caratteristiche rigature facendo scivolare ogni gnocco sullo strumento apposito (rigagnocchi) o su di una forchetta, schiacciando un pò ma non troppo.



Lasciateli riposare per 15 minuti, dopodichè fateli cuocere in una pentola abbastanza grande con l'acqua (non salata) e scolateli quando saliranno a galla.
Magari non risolveranno tutti i vostri problemi, ma con il vostro condimento preferito questi gnocchi vi faranno amare un pochino di più la semplice cucina.


13 agosto 2013

Il nuovo Messia



Mai come in questo momento la razza umana ha necessità di un SuperEroe. Mi sono immaginato l’arrivo del nuovo Messia in linea con i nostri tempi, l’ho pensato giungere a bordo della sua Bentley con strisce di led azzurre sotto la scocca, auto rigorosamente elettrica perché Lui è attento all’ambiente. Le dotazioni di base sono il suo inseparabile SmartPhone ricco di Apps. celestiali, con la versione Olimpo di Wazzup installata per chattare direttamente con il Padre e tutto il parentado, connesso via Bluetooth, Wi-Fi, 3G, UMTS a tutti i dispositivi elettronici terrestri, si perché Lui ha necessità di rimanere in contatto con tutto e tutti per dare il via alla rivoluzione pacifica che ci riapproprierà di ciò che ci apparteneva un tempo: La libertà. Me lo sono immaginato così, senza barba, ormai non più necessaria in questo strano terzo millennio, simbolo non più di saggezza ma di non-curanza e malessere. I capelli d’altro canto saranno corti e curati, per dare continuità alla linea di pulizia adottata con la barba. Una cravatta nera di quelle strette, su camicia bianca, e un vestito, nero anch’esso ma con luccicanti stelline e fronzoli a differenziarsi dalla massa di falsi Messia giunti da ogni parte del paese a reclamare il titolo. Ma cosa è giunto a fare? Si domanderà il lettore ora incuriosito. Di cose da fare, caro mio, ce ne sarebbero quanto le onde. Partirebbe con lo sconfiggere il male. Si potrebbe cominciare così dai politici, andiamo sul sicuro. Il paese ormai è allo scheletro e loro trovano comunque il modo di rosicchiare l’interno lasciando intatta la facciata, lasciando un cimitero di ossa buche. Almeno sono buone con la polentina, dirà il lettore di buona forchetta. Sfortuna vuole che il redattore del presente scritto non mangi carne. Così ne rimarrà più per noi, concluderà il lettore realista. Potremmo passare poi alla categoria dei medici venduti alle multinazionali di BigFarm, quelli che vogliono ad ogni costo mostrare la loro bravura nell’operare, asportare, recidere, suturare. Ma dottore, non era solo un raffreddore? La terza categoria da cui ci salverà saranno gli idraulici, ma solo da quelli che non capiscono un tubo (presa in prestito da una barzelletta raccontatami per telefono da mio nipote di 5 anni). Ho pensato a quali debbano essere le caratteristiche di un SuperEroe moderno. Intelligenza, carisma (inclusa la bellezza) ed eleganza sono dati per scontato in questo terzo millennio. Astuzia, loquacità e leadership sono caratteristiche di cui il nuovo Messia non può farne a meno. Fantasia, creatività e lucidità mentale per spiazzare ogni possibile antagonista. Ma soprattutto, mi sono detto, ci vuole costanza. Qualcosa come 7 miliardi di anime da salvare, resto mancia, non sono proprio un’inezia e l’appagamento, dopo solo qualche milionata, è dietro l’angolo. Non si può mica lasciare tutto il rimanente a quel povero diavolo, e qui è proprio il caso di dirlo, di Belzebù. Che colpa ne ha, in fondo recita anche lui solo una parte. Disponendo quindi di tutte le caratteristiche da ricercare, da stamattina sono qui appollaiato su questa panchina fronte mare in cerca di quegli inconfondibili segnali da decifrare. Ho visto cose che voi umani… Recitava così l’epilogo di un gran bel film e potrei tranquillamente affrontare un sequel di quel capolavoro descrivendo per filo e per segno i casi umani che si sono palesati di fronte ai miei occhi. Non tutta feccia, è bene affermare la verità, ma anche qualche possibile pretendente. Chi aveva l’intelligenza mancava tuttavia di prestanza e fantasia, chi aveva creatività in abbondanza era ormai diventato sordo, per non dire ubriaco fradicio, per via di quel Rave della notte precedente, chi era fornito di carisma mancava di lucidità, troppe ore sotto il sole cocente stordiscono anche un toro. Uno in particolare è andato vicino ad essere eletto Il Messia. Disponeva di tutte le caratteristiche sopraccitate, appurate tramite una durissima selezione e rigorosissimo test a risposta multipla. Per capire se avesse anche l’ultima caratteristica, fondamentale per essere un Leader di proporzioni planetarie, ho posto l’ultimo quesito: Mio caro concorrente, in questo mondo sempre più globalizzato, sempre più rapido nella comunicazione, sempre più dinamico nell’innovazione, tu, a chi ti ispiri? A Lapo Elkan, mi piace il suo stile. Man mano che passa il tempo, una consapevolezza sempre maggiore prende piede dentro di me, forse non siamo ancora alla frutta, forse dobbiamo soffrire ancora un poco prima di raggiungere l’agognata salvezza. Quello che mi resta è l’idea che probabilmente il nuovo Salvatore non sarà di questa generazione.

11 agosto 2013

Gli scrittori hanno successo



Il lettore non si arrabbi se questa prima cronaca la scrivo soltanto per me. Se si risente non continui nella lettura. Potrebbe tuttavia, vinto lo sconforto iniziale di non vedersi dedicata questa prosa, cogliere dei fatti e delle circostanze comuni e sviluppare così maggiore sensibilità nei miei confronti, o nella categoria degli scrittori in generale, così da uscirne incentivato alla lettura delle prossime. Quello che state per leggere è un fatto di cronaca realmente successo e lo dico giusto per ribadire il concetto, dato che un fatto di cronaca, di per se, dovrebbe narrare qualcosa di vero. Uso il condizionale perché conosciamo bene il mestiere dello scrittore, un osservatore il più delle volte imparziale, almeno nelle intenzioni, che tende a narrare solo quello che il suo particolare punto di vista gli consente di vedere e la sua percezione gli suggerisce di cogliere. Ho detto nelle intenzioni perché è insito in ognuno di noi, specialmente negli Italici che nella loquacità sono maestri, virtù sviluppata fin dai tempi degli antichi romani, spingersi un po’ oltre nella narrazione dei fatti. Così il mio rafforzativo sottolinea che, seppur edulcorati in qualche frangente, i fatti narrati da ora in avanti e per tutti gli scritti futuri saranno davvero racconti di cronaca e quindi, per definizione, veritieri. Terminate le doverose precisazioni vengo a raccontare il motivo per cui ho deciso di iniziare a scrivere. Questo pomeriggio mi trovavo sdraiato sugli scogli in riva al mare mentre godevo dei caldi raggi solari e della fresca acqua marina. Il sole in calando scaldava ancora la pelle e la sua forza raggiungeva ogni singola cellula del mio corpo. Bagni di magnetismo e autentico giovamento. Sollazzato da madre natura mi rilassavo con la scrittura di qualche pensiero nato alla vista di quell’infinito. Un tale di nome Josè Saramago, portoghese di nascita ma adottato in ogni paese del mondo o almeno in quei luoghi dove di letteratura se ne intendono, mi fa virtualmente da mentore. La mia ammirazione per lui è quella di un bambino nei confronti del suo supereroe preferito. Quando leggo i suoi scritti, è tale la bellezza che ne esce e che s’impadronisce di chi li legge e s’immedesima nei suoi personaggi che di vanità m’inondo pure io. Così non mi stupisco del fatto che tutti mi osservino mentre, su quello scoglio, scrivo ispirato dal mio maestro. Gli occhi dei bagnanti, tutti puntati su di me, o così mi pareva che fosse. Quale strano sentimento nasca quando si è oggetto di tanta ammirazione ancora mi è oscuro, ma qualunque esso sia è successo che proprio quello mi fece contrarre ogni muscolo del mio corpo in una posa che nemmeno gli antichi maestri scultorei sono riusciti a rappresentare. La spiaggia si è trasformata in un’esibizione di culturismo, anche se la prestanza fisica, ahimè, non è la mia caratteristica più rappresentativa. Inorgoglito da tante attenzioni ogni due o tre frasi di appunti alzavo gli occhi, ora verso il mare, ora lungo la spiaggia, ora perso nel cielo. Fingevo disinteresse ma la terza occhiata mi fece notare due occhi suadenti puntati su di me. Incapace di continuare nella scrittura, e il mio maestro mi perdonerà per questo, mi sono alzato per una breve immersione nell’acqua salmastra. Notai subito che l’attenzione degli altri bagnanti, appena posato il quaderno degli appunti, si orientava su altri lidi, chi alle proprie letture, chi alle formine e castelli di sabbia dei figli, chi a spaparanzarsi al sole o a qualsiasi altra attività che più aggrada il lettore che si è ormai immedesimato in uno di questi bagnanti. Così esterrefatto riprendo in mano il quaderno e la penna e subito tutti quegli occhi che pochi secondi prima mi avevano abbandonato, con la stessa celerità si calamitarono ora su di me. Da qui la mia considerazione che ogni scrittore, anche se poi non tutti lo ammettono, scrive per un solo ed unico motivo. Non servirà intervistarli tutti, uno per uno, in privato, in una stanzetta della loro casa per metterli completamente a loro agio per carpirne il vero motivo. Diranno che lo fanno per una sorta d’illuminazione o per fissare meglio le idee su di un qualche argomento, o solo perché hanno qualcosa da dire e quello è il loro mestiere. Al più diranno che lo fanno per guadagnarsi il pane o ancora solo per loro. Non credetegli, per favore cari lettori, non fatelo. Stando alla frase di apertura di questa prosa non dovrete credere neppure a me. Ebbene non fatelo, ma sono stato sincero, ho narrato quello che ho visto e sentito. Il motivo per cui uno scrittore dà il via alla sua attività è uno solo, si diceva poche righe più sopra, ed è questo: Essere amati. O sentirsi amati, che è poca differenza. Ho provato con il massimo impegno a cercarne altri, ma ancora non ci sono riuscito e forse il motivo è proprio che non ne esiste un altro.

20 giugno 2013

Oggi a Lavoro

Questo pomeriggio, come ogni altro pomeriggio, ero intento a sviluppare un'offerta e quindi a descrivere la nostra proposta tecnica. Ma questo pomeriggio non era come ogni altro pomeriggio. Questo pomeriggio ho realizzato.
Mi sono reso conto infatti che le nostre offerte tecniche non le legge mai nessuno. E perchè mai mi sono chiesto?


La prima cosa che fa il cliente quando riceve un'offerta è guardare subito il prezzo, la seconda è chiedere lo sconto (alle volte le due cose si invertono). La terza è sparire dalla circolazione.

Quindi mi sono detto, tanto vale inserire un'articolo di TGCOM al posto della descrizione tecnica, forse avrei più successo. Ma poi finirei per non essere più preso sul serio per tutte le minchiate che dicono quelli là, e allora, illuminazione!!!
Perchè non inserire all'interno di ogni descrizione tecnica qualcosa di enigmatico che susciti interesse? una roba del tipo:

"Gent.mo Sig. Pippo Lippo,

in allegato può trovare tutta la documentazione per l'offerta in oggetto.
Rimango a Suo completa disposizione per ogni eventuale chiarimento.

Si legga bene la specifica tecnica perchè ho inserito, non le dico dove, la ricetta segreta della coca-cola così fa felice i suoi bambini questa sera

oppure chessò

Prenda il secondo capoverso del capitolo riguardante quel prodotto e unisca l'ultima frase del sistema taldetali, la frase risultante è una canzone di successo di Gigi D'Alessio"

Almeno questa volta, se non la leggeranno, sarà per un valido motivo!!!

11 giugno 2013

L'importanza dell'alimentazione: anche Gesù ne parlava

Riporto uno spezzone de "IL VANGELO ESSENO DELLA PACE" - Manoscritti originali scoperti e tradotti da Edmond Bordeaux Szekely!!!

Io non lo so, ognuno tragga le proprie conclusioni.



Così io vi dico: non uccidete né uomini, né animali e neanche il cibo che entra nella vostra bocca. Perché se mangiate cibo vivente quello stesso cibo vivificherà anche voi, ma se uccidete il vostro cibo quel cibo morto vi ucciderà, poichè la vita viene solo dalla vita e dalla morte viene sempre la morte. Infatti ciò che ha ucciso il vostro cibo ucciderà anche i vostri corpi; e tutto ciò che uccide i vostri corpi ucciderà anche le vostre anime. Perchè i vostri corpi diventano ciò che mangiate così come le vostre anime diventano ciò che pensate.
Quindi non mangiate nulla che sia stato distrutto dal fuoco, dal gelo o dall’acqua; perché i cibi bruciati, congelati o marci bruceranno, congeleranno e faranno marcire anche i vostri corpi. Non fate come il contadino sciocco che seminò semi cotti, congelati e marci; e quando venne l’autunno i suoi campi non produssero nulla e la sua miseria fu grande. Ma fate come quel contadino che seminò nel suo campo semi viventi i quali si moltiplicarono centinaia di volte. Dunque vivete solo con il fuoco della vita e non preparate i vostri cibi con quel fuoco della morte che uccide i vostri cibi, i vostri corpi e anche le vostre anime.


e ancora...

Tu non ucciderai — Perché la vita è data a tutti da Dio e ciò che Dio ha dato, l’uomo non può togliere. In verità vi dico, da una sola Madre proviene tutto ciò che vive sulla terra. Pertanto colui che uccide, uccide suo fratello. E da lui la Madre Terra si allontanerà e lo priverà del suo seno vivificante. I suoi angeli si allontaneranno da lui e Satana prenderà dimora nel suo corpo. E la carne degli animali uccisi diventeranno nel suo corpo la sua stessa tomba. Perché in verità vi dico, colui che uccide, uccide se stesso, e chiunque mangia carne di animali uccisi, mangia il corpo della morte. Poiché nel suo sangue ogni goccia dei loro sangue si trasforma in veleno; nel suo respiro il loro respiro volge in fetore; nella sua carne la loro carne in putredine; nelle sue ossa le loro ossa si trasformano in gesso; nei suoi visceri i loro visceri in disfacimento; nei suoi occhi i loro occhi in scaglie; nei suoi orecchi i loro orecchi in secrezioni cerose. E la loro morte diventerà la sua morte.




23 maggio 2013

Nel mezzo del cammin...


La strada su cui cammina è colma di lievi, fumose e impolverate impronte. S'immagina di percorrere quella via tra le più famose, Che sia La Strada, si domanda, la retta via che più di qualcuno in passato, senza riferimenti a nomi troppo importanti per essere citati in un semplice racconto, e perchè comunque ognuno, a modo proprio, è anch'esso importante, quella strada si diceva, che più di qualcuno ha smarrito.

Non distingue più le orme che sta seguendo, così si ferma e per la prima volta osserva: rami ruggenti, i più alti ed esposti, appena frastagliati quelli bassi e tozzi. Gonfia d'aria il suo ventre inspirando aria filtrata dalla natura e il corpo ne trae immediato giovamento, s'inebria la testa ossigenando il cuore.
Chiude gli occhi per ricordare.

Un cespuglio si scuote, ne esce un coniglio. Accanto a lui una mela da una parte e una carota dall'altra. Il piccolo animale è pietrificato dalla paura e giace immobile al suo cospetto. Così il viaggiatore gli si avvicina, si china e lo prende tra le mani, distribuendo carezze consolatrici. Non sono un felino, non ho artigli per far male, ma solo polpastrelli per poterti accarezzare. Così ivi si siede e siccome è affamato coglie la mela e l'addenta.
Non è tempo di rilassamento per il Viaggiatore, così tira l'ultimo morso al pomo e si alza, posando il coniglio laddove lo aveva trovato. Prende la carota e la divide equamente tra lui e l'animaletto, pone la sua metà in tasca per emergenze future, poi infine riapre gli occhi.

Si frega in tasca ma è vuota come lo era prima. Lo stomaco reclama.
Arco e freccie non le possiede e nemmeno le vuole, ma polpastrelli per cogliere bacche succose. Lascia la strada battuta di indecifrabili orme e si avventura in cerca di un dono. A chi osa per qualcosa di bello il Creatore riserva un banchetto e infatti poco distante il Viaggiatore trova cespugli in fiore, carichi di preziose gemme selvatiche. Non pensate che siano di quelle gemme tanto care a certe signore, da tenere in bella vista ciondolanti sui loro seni semi scoperti, ma gingilli forse più preziosi, carichi di salute e sostanze nutritive, da mangiarne a volontà. Si sfama a piene mani, senza fare danni al fragile ecosistema. Felice riposa ora sotto ad un albero. Se alzasse un pò lo sguardo capirebbe che è un fico e potrebbe gioire anche dei suoi preziosi frutti, ma il suo stomaco è sazio e più non ne domanda.

Quando si sveglierà, troverà finalmente delle orme fresche da seguire, vive e definite. Forse un sentiero nuovo che conduce chissà dove. Le seguirà oppure lascerà che i suoi passi traccino nuove vie.

Una strada polverosa lascia sempre le orme di coloro che precedono e seguirle vuol dire andare dove vanno tutti. Il viaggiatore ora sa che i frutti migliori sono poco agevoli da prendere. Se ne rallegra e vuole scovarli.


16 marzo 2013

Pezzi di vetro

Gli capita ogni tanto di sentire gente dire Io sono così, genuino, vado per istinto, le cose che ti devo dire te le dico in faccia, prendere o lasciare.

Così lui lascia. Non confonde genuinità con sincerità, quella purtroppo la da per scontata nei suoi amici. Genuino può esserlo un cane, un pò meno un gatto, ma non di certo un essere umano. Conosce bene il suo istinto e si lascia consigliare da esso, ma non si fa condurre da lui, un servo che guida il padrone, dove potrebbe portarlo?


Siamo esseri istintivi, ma le cose che diciamo, come ci comportiamo, dovrebbero essere setacciate dalla nostra coscienza, o buon senso almeno se questa manca, perchè a dire le prime cose che passano per la testa si finisce in un fragore di vetri infranti.


Così lui lascia.
A pezzi.


8 marzo 2013

L'inverno di una vite


Spogli di tutto
ci si aggrappa ad ogni cosa,
quando è inverno. 
Ma l’estate arriverà
con i suoi frutti.

Non ci faremo schiacciare dal loro peso,
rigogliosi ci mostreremo


14 febbraio 2013

Per un calice di vino




L’enoteca che sta davanti ai giardini pubblici di via Enrico Fermi è gestita da Toni. Il nome della via, scritto su di un cartello, è montato su di un palo proprio vicino all’ingresso della taverna, all’altezza dell’attraversamento pedonale e sembra essere stato messo lì apposta dalla giunta comunale. I clienti che escono traballanti dal tempio di Bacco trovano un appiglio sicuro a cui aggrapparsi prima di rischiare la traversata della via. Rischio che tuttavia vale la pena correre quello di sfidare le macchine che escono all’improvviso dalla curva a gomito che precede il locale, per il semplice fatto che, dall’altra parte della strada, nei vicini giardini pubblici abbondano le panchine. Se fossimo uno di quei signori a passeggio con il nostro cane in una mite serata primaverile e decidessimo di portarlo proprio in quei giardini comunali che offrono, tra l’altro, un’aria dedicata alle necessità dei nostri amici animali, e una volta liberatolo nel recinto decidessimo di trovare una panchina per sederci e riposare le nostre gambe pesanti per qualche minuto, non troveremmo posto alcuno, occupate invece dai corpi addormentati dei clienti intenti a smaltire la sbornia. E se inorriditi da quello spettacolo decidessimo di andare a far valere le nostre ragioni di cittadino contro quel ristoratore, nell’attraversare la strada incontreremmo sicuramente qualche persona aggrappata a quel palo che ha sopra un cartello con su scritto E. Fermi. Una volta entrati poi, chiedendo del gestore, ci sarebbe venuto incontro un uomo di bell’aspetto, gradevole, sorridente, gentile nei modi e non ci sarebbe sovvenuto alcun motivo di rimprovero e l’allegria, la freschezza e la festosità dell’ambiente e della gente che vi sedeva ci avrebbero fatto dimenticare persino del motivo della nostra uscita serale e ci saremmo ritrovati al bancone a ordinare l’ennesimo calice di vino, e condividere i nostri problemi con qualche cliente divenuto amico per poi andare con lui a smaltire la sbornia nei giardini pubblici, prima di rientrare barcollanti in casa, ringraziando il cane venutoci a svegliare.
Toni è originario del veneto, come la maggior parte del vino che vende. Proviene da una zona particolarmente vocata al Dio Bacco, l’area che sta a nord-est di Verona, vicino alla più rinomata, per chi si intende di vini, Valpolicella. Il nome era molto usato in passato per definire un luogo celestiale, quasi incantato. La derivazione di Soave è ammantata di leggenda. Ignari di tutto, avendo dalla nostra parte la fortuna di ritrovarsi in quell’enoteca con poca gente intorno, in uno di quei rari momenti di tranquillità rispetto alla solita fiumana di persone che nei giorni di festa si riversa assetata sui suoi tavoli, mentre Toni ci stappa la bottiglia proprio sotto il naso liberando inebrianti aromi, potremmo ascoltare la storia secondo la quale la città di Soave è così chiamata per via del sentimento che s’impadronisce di coloro che bevono il vino che ne porta il nome. Protetta dalle correnti gelide a nord dalle Prealpi Orientali, resa fertile dalle acque dell’Adige e mitigata dal vicino lago di Garda, la terra che ne deriva non potrebbe avere altro nome e nel suo vino ne è disciolta l’essenza. “Soave Deriva dal latino Suavem e significa piacevole ai sensi, produce al palato un’impressione dolce e carezzevole”. Il Toni ne è un eletto rappresentante.
Mentre asciuga gli ultimi bicchieri e sistema l’attrezzatura preparandosi per la serata, il locandiere li osserva, hanno tutta la sua attenzione essendo gli unici clienti del locale. Si domanda che problema abbiano, dato che da quando si sono seduti a quel tavolo, e saranno passati circa una trentina di bicchieri asciugati e una pulizia accurata del banco, il ragazzo posto a lui di spalle continua a fissare la prima pagina della lista, quella con la foto dei colli euganei visti da una posizione privilegiata, dalla cima di una delle sue colline, precisamente dal monte della madonna, il più alto, chiamato così, come sostengono alcuni cattolici tra i più praticanti, per l’esclamazione che viene da pronunciare mentre si ammira la spettacolare vista sull’ampia vallata ricolma di viti, mentre la ragazza che gli sta di fronte non ha ancora tolto lo sguardo insofferente da quel poveretto.
La giovane abita nella villetta posta nella via adiacente a quella della taverna. Toni si ricorda di qualche giorno prima quando a notte ormai inoltrata, mentre l’enoteca era prossima alla chiusura e solo un paio di clienti tranquilli riempivano il salone, i due ragazzi erano entrati. Il giovane si era diretto subito al tavolo più vicino a quei due e questo gli era sembrato strano perché le coppiette, di solito, si cacciano sempre negli anfratti più bui del locale. Alla ragazza non era rimasto che seguirlo, disponendosi tuttavia nel lato più isolato del tavolo, se non al riparo, almeno protetta il più possibile da orecchie indiscrete.
Il giovane aveva ordinato un bicchiere di Recioto con dei crostini e del Roquefort spalmato sopra. Toni era rimasto impressionato per quell’accostamento, conosciuto solamente dagli intenditori e sebbene la cucina era chiusa da tempo, era felice per quella richiesta. La ragazza non aveva fame e quindi si era limitata a una bottiglia di birra.
Nel preparare quanto gli avevano ordinato, Toni allungava ogni tanto l’occhio in direzione del giovane esperto di vini e della sua amica. Gli era sembrato che fossero troppo freddi per essere amici e così aveva ipotizzato una litigata, magari avvenuta poco prima in qualche altro locale, a causa di qualche ammiccata alla cubista e qualche cocktail di troppo. Ne aveva viste talmente tante che ormai centrava il bersaglio a occhi chiusi.
Mentre versava il vino nel calice si era domandato come poteva essere che un abitante di questo paese conoscesse l’elisir della sue zone, un vero e proprio nettare di lunga vita. L’aroma che s’innalzava da quel bicchiere gli aveva rammentato di quando, prima della vendemmia, lui e suo padre girassero per i vigneti di famiglia a selezionare i migliori grappoli che poi sarebbero diventati quel vino. Li adagiavano a riposare su dei graticci, avendo molta cura che le cantine fossero costantemente arieggiate per non dare modo a funghi e batteri di prendere possesso di quegli acini. Il lento appassimento e le continue cure facevano si che, quasi otto mesi dopo la vendemmia, l’uva fosse pronta per essere pigiata. Capiamo il motivo per cui, ogni volta che riempie il bicchiere di quel passito, ci versa insieme anche un po’ del suo amore.
Quando gli altri due clienti se ne erano andati abbandonando i tre in quella taverna, la ragazza non aveva trovato più motivo alcuno per rimanere sulle sue e nonostante l’ora della notte portasse sonnolenza, un’energia nuova sembrava essersi generata in lei. Ora sbraitava in direzione del giovane seduto di fronte, che tuttavia non sembrava preoccuparsene. Forte dell’inaspettata alleanza con Toni, si burlavano entrambi, tra sguardi d’intesa ed espressioni buffe a indirizzo della ragazza, della sua indole bacchettona, e mentre il taverniere imitava da dietro al bancone le strigliate di rimprovero della giovane, il ragazzo si sforzava di restare serio e di mantenere una postura adatta a parare cazzotti.
Ora si ritrovano ancora loro tre, ognuno con i propri pensieri ben nascosti chissà dove.
“Sapete già che cosa prendere?”
Il ragazzo si rammarica di essere stato richiamato in quel luogo dal gestore, vorrebbe tornare dove fino a un attimo prima il suo cuore stava in pace.
“Mi potrebbe portare un bicchiere del vino che proviene da queste uve?” indica la foto che fino a poco prima stava osservando.
“Per lei invece, cosa porto?”
“Per me qualcosa di forte”.
“Non è troppo forte ma consiglierei per entrambi una bottiglia del vino proveniente da quelle uve”, strizza l’occhio al ragazzo “E’ un vino giovane, fresco e di gradevole acidità, si chiama Soave e se avete un po’ di fame, vi consiglierei dei crostini con formaggio fresco di capra che mi è arrivato proprio stamattina dal contadino da cui ci riforniamo.”
“Io non ho fame”, ribatte lei.
Il ragazzo che ancora sta fissando il gestore, quasi a scusarsi del tono usato dalla giovane seduta di fronte a lui, sussurra “Io ne prendo una porzione”.
Ancora un sorriso tra i due mentre Toni ritira entrambe le liste, quella della ragazza ancora appoggiata al tavolo nella posizione di origine, e quella del giovane, con un po’ più di fatica dovendogliela quasi strappare dalla mano. Appeso al muro il ragazzo nota un quadro con una scritta, “In vino veritas” legge ad alta voce allontanando quel fastidioso silenzio che si stava nuovamente ricreando.
“Speriamo che sia così”.
Ormai che il ghiaccio si è rotto e forse quel quadro è stato appeso lì proprio con quell’intento, la ragazza non si fa scappare l’occasione.
“Pensi che sia normale il tuo comportamento?”
“Scusa?”
“Meno male che almeno ti scusi.”
“Scusa nel senso che non ho capito che intendi dire.”
“Tu non capisci mai che intendo dire.”
“Ecco che parte con gli insulti.”
“Ancora non ho iniziato con quelli, ti pare normale che se non mi faccio sentire io potrebbero passare intere settimane prima che tu ti decida a farlo?”
“Ma se ti scrivo sempre il messaggio della buonanotte”
“Alle nove di sera?”
“Nove e mezza”
“Ora dimmi che vai sempre a letto così presto”
“Te lo sto dicendo”
“Domani lo chiedo a tua madre a che ora vai a letto”
“Chiediglielo pure”
“Certo che glielo chiedo, e se anche fosse vero che vai a letto a quell’ora, lo fai solo per evitare di sentirmi”
“Ma che ti sei messa in testa? Tu sei tutta matta”
“Sono matta, si, ma per colpa tua”
“Mia? Che cosa ho fatto”
“Nulla, non fai mai nulla, ecco il problema.”
Distolgono entrambi lo sguardo da chi gli sta di fronte, e mentre la ragazza si sofferma sul locandiere intento a preparare i crostini con il formaggio, il giovane sbircia i quadri appesi sui muri in mattoni della cantina. La vista è catturata da un poster che copre un piccolo spicchio dell’immensa parete dove una minuscola Jeep bianca sfida il deserto della Namibia limitato, almeno da una parte, dal blu intenso del mare che contrasta l’infinito arancione della sabbia. Si immagina dentro quella macchina all’incalzare della tempesta, mentre il mare sembra voler inghiottire quella distesa rovente, ma è solo un’impressione perché l’onda, seppure impetuosa, trova sfogo in quelle immense distese.
“Ecco a voi ragazzi” Toni appoggia il vassoio sul tavolo, prende delicatamente i calici e li sistema davanti ai due disegnando una spirale con la base del bicchiere per appianare le pieghe della tovaglia. Stappa la bottiglia di Soave e ne odora lo stato di conservazione fiutandone il tappo. Il ricordo delle vendemmie lo sequestra per un momento, così chiude gli occhi inspirando più forte. Ne versa una piccola quantità al ragazzo che lo assaggia. Un cenno di assenso con la testa ed entrambi i bicchieri si riempiono per metà. Appoggia la bottiglia al centro del tavolo avendo cura di non interrompere la comunicazione visiva tra i due, poi prende il piatto con i crostini e il formaggio e questa volta lo mette proprio nel centro del tavolo.
La ragazza blocca la mano del taverniere e ringrazia con un sorriso le sue attenzioni. Il giovane seduto davanti a lei strabuzza gli occhi sorpreso di quel gesto, non meno meravigliato dello stesso Toni che riprende possesso della sua posizione dietro al bancone.
Alza poi lo sguardo ancora incredulo, ricambiato da quei due occhi troppo giovani. Il bicchiere che sta asciugando gli scivola tra le mani e finisce in mille pezzi ai suoi piedi. Abbassa lo sguardo per rendersi conto del danno combinato, poi lo rialza giusto in tempo per notare l’espressione maliziosa della ragazza. Il giovane si volta attirato dal fragore di vetri infranti e lancia uno sguardo che pare un coltello al taverniere. Si volta di nuovo verso la sua ragazza che, intenta ora ad assaggiar crostini, sembra non badare più ai due pretendenti.
La fortuna giunge sempre in soccorso di chi ne ha meno bisogno e così dalla porta entrano dei signori che chiedono un posto tranquillo dove poter degustare vino e assaggiare salumi. Prende l’occasione per accompagnarli nella saletta privata.
Cerca il modo di restare il più lontano possibile da quei due e allora svolge come meglio sa fare il lavoro del taverniere.
E così Toni riversa su quei poveri signori tutta la sua conoscenza enologica e culinaria dei prodotti tipici delle sue parti. Suggerisce il bollito con la Pearà ossia carne di manzo scortata da una salsa a base di pane grattugiato, formaggio, midollo, brodo e pepe nero al quale abbina un Bardolino dell’azienda Agricola Pigno, gestita dal suo caro amico ed ex compagno delle scuole medie tale Bruno Martari, oppure la Pastissada de Caval, ricetta vecchia di mille e cinquecento anni: la tradizione vuole che al termine della battaglia combattuta nel 489 tra Teodorico, re degli Ostrogoti, e Odoacre, re dei Barbari, vi erano centinaia e centinaia di cavalli che giacevano morti sul terreno. I veronesi affamati, non volendo che tutta quella carne andasse sprecata, la tagliuzzarono e la misero a macerare nel più corposo vino rosso della Valpolicella, aromatizzandola con dovizia di spezie e verdure, per poterla consumare all'occorrenza, cuocendola a fuoco lento. Senza indugio la accosterebbe all’Amarone della Valpolicella il più pregiato vino della zona, mai usato in maniera più adatta a onorare le vittime di guerra che, non solo avevano dato l’anima per i loro stallieri ma persino le carni, e da qui il detto dare anima e corpo. Toni per i suoi clienti ha pensato anche a chi gli animali li vorrebbe solamente accarezzare e per questo ha introdotto nel suo menù la Polenta infasolà priva di ogni proteina animale, ricetta che si sposa a meraviglia con il famoso Prosecco di Valdobbiadene. La sua specialità tuttavia è il fegato alla veneta, niente meno che pezzetti di fegato che si lasciano abbracciare dalla cipolla dorata. Non verrete certo additati di essere degli insensibili assassini di poveri e indifesi animali perché, pace all’anima loro, la ricetta discende direttamente dall’Olimpo e la loro unica sfortuna è quella di essere nati nella fattoria del Toni, o poco più a valle, di quella dei Colomberotto, amici centenari di famiglia e allevatori da generazioni.
“Di solito qui da noi la giornata migliore per consumare le frattaglie è il martedì perché è il giorno in cui mi arriva la carne fresca, ma casualmente proprio oggi mi è stata consegnata della carne freschissima, e vi consiglio un Cabernet Souvignon superiore per risaltare il contrasto con il dolce della cipolla”. Questa è la frase che dice ormai a memoria se qualche avventore, attirato forse dal brontolio dello stomaco o da quell’insegna luminosa con impressa una tavolata piena di gente festante e un fiume traboccante spumeggianti bollicine, arriva nella sua enoteca. Che ci crediate oppure no davanti a un bel piatto di fegato alla veneta, nessuno dei suoi commensali ha mai saputo resistere.
S’inventa ancora una ricetta, che pare anche buona, pur di ritardare il ritorno nell’altra sala e solo l’allergia dei signori a un ingrediente citato ha evitato che quelli la ordinassero. Così finisce il menù e i commensali ordinano. Torna al bancone e si sorprende di quello che vede. La bottiglia di vino sul tavolo dei due litiganti è quasi vuota. I crostini, neanche a dirlo, sono andati via come il pane e un’espressione più rilassata è tornata sui volti dei due amanti.
Passa accanto a loro ma, intenti come sono a parlare, non badano alle faccende di Toni. Così lui torna al suo posto dietro al bancone, avanza l’ordinazione alla cucina e si adopera per pulire e asciugare i restanti bicchieri.
Dalla sua postazione riesce a udire i discorsi che i due fanno e gli scappa un sorriso quando lei fa notare al ragazzo di come sia freddo il suo comportamento, distaccato, di come le sue emozioni siano tenui, troppo per uno che si reputa innamorato, lo vorrebbe più presente ma lo tranquillizza riguardo la sceneggiata avuta prima con Toni: voleva capire quanto lui tenesse a lei. D’altro canto per il ragazzo lei è troppo pressante e insistente e per certi versi perfino stancante, sembra che voglia privarlo della libertà e farne una marionetta, dovendo per forza di cose sapere ogni momento dov’è e cosa sta facendo.
Così ordinano un’altra bottiglia e le parole a fatica rimangono dentro. Da quella fatale serata alcuni atteggiamenti del ragazzo che le avevano suggerito un raffreddamento nel rapporto avevano generato in lei la sensazione che lui avesse smesso di amarla e solo questo è il motivo per cui lei ha cercato di essere più presente nella sua vita, più disponibile e si faceva estenuante solo per capire il motivo di tanta sfuggevolezza. Lui allora smentisce di non amarla più, che il tenere per sé le emozioni è una sorta di autodifesa, perché ogni volta che si è lasciato andare ha avuto dei veri e propri traumi emotivi e sempre più tempo ci è voluto ogni volta per rinsavire.
Tutto quel vino ingurgitato ha stimolato, oltre che la lingua, anche qualcos’altro e la prima a cedere è la ragazza che a un certo punto si alza e corre in bagno. Così Toni, confortato da quanto appena udito sul rappacificamento tra i due, si dirige verso il ragazzo e senza dire niente gli si siede accanto. Lo guarda come un padre guarderebbe suo figlio.
Il ragazzo, già visibilmente provato se non dalle due bottiglie di vino, dall’esalazione dei sentimenti avuti con la ragazza, si lascia andare abbracciando, a sua volta, il busto del taverniere. A essere lì con loro in quella taverna, vedendo la scena, non potremmo esimerci dal gettare fuori qualche lacrima, e così fa pure il ragazzo ormai libero da ogni freno inibitore.
“Io amo lei” singhiozza il giovane.
“Si lo so, è una bella ragazza, mi spiace per quello che ti ha fatto passare ma io non provo nulla per lei, lo ha fatto solo per farti ingelosire, perdonala, sono solo ragazzate” cerca  di consolare il ragazzo.
“Io amo lei, io amo lei” Ribadisce piangendo sempre più forte e sempre più forte Toni lo stringe a sé.
“Su su, ragazzo, fatti coraggio, va tutto bene”.
“Io amo lei, io amo lei, io amo lei” è rotta dal pianto la sua voce mentre una mano si appoggia sulla gamba di Toni in una maniera tale da lasciare poco spazio a interpretazioni.
In un tempo che potremmo giudicare troppo lento se ci trovassimo nella stessa situazione del taverniere, forse nel rispetto di quella simpatia reciproca che legava quelle due persone, Toni cerca di scostarsi, imbarazzato, da quella stretta: “Ma lei chi?”
Si videro di fronte la ragazza che, ignara di tutto, era tornata dal bagno.
“Andiamo?” domanda rivolta al ragazzo.
Come se nulla fosse il giovane si alza.
“Quanto le dobbiamo per il vino”
“Niente niente offre tutto la casa”. Sperando così di non doversi più confrontare con quei due avvenenti fidanzati. E mentre il ragazzo si è già diretto alla porta, la giovane si avvicina a Toni.
“Grazie di tutto, stai certo che saprò ripagarti in un modo o nell’altro” e detto questo stampa le sue labbra su quelle dell’enologo.
Escono dall’enoteca i due, ignari dei segreti che l’uno cela all’altro.
Frastornato dagli eventi, a Toni cedono le gambe e si ritrova seduto su quel tavolo che, in vent’anni di onorata carriera non ne aveva mai sentite così tante tutte insieme. Il suo sguardo è fisso sulla bottiglia che contiene ancora non più di un dito di vino. Se lo versa così nel bicchiere che fu del ragazzo, prende l’altro calice che ancora contiene qualche centilitro di Soave e lo versa in quello che gli sta davanti. In un sol colpo tutto è nello stomaco “Questo è un miracolo divino”.
Tale padre tale figlio, niente di più vero per questo taverniere.
A memoria d’uomo non si ricordava un periodo tanto lungo di pioggia quando Toni nacque trentatre anni fa. Pioveva ininterrottamente da tredici giorni e il paese era ormai diventato un immenso lago. Fosse piovuto ancora un giorno la vendemmia dell’intero anno sarebbe andata in malora, di questo il padre di Toni ne era certo. All’inizio non ci avevano fatto caso, un giorno, due, tre, cinque, l’avevano aspettata tanto quella dannata pioggia e ora finalmente era arrivata. Dopo nove giorni di precipitazioni anche lui aveva iniziato a preoccuparsi. Era andato nei campi per bucherellare il terreno nella speranza che l’acqua defluisse peggiorando la situazione, tanto che il terreno stava franando a valle. La madre aveva iniziato ad accendere ceri al Signore e le donne di casa si radunavano ogni sera intorno al camino dicendo il rosario. L’acqua entrava a ondate dalla porta di casa e le fondamenta, ormai zuppe, si gonfiavano in maniera preoccupante.
Le strade erano tutte inagibili e ogni famiglia ormai era lasciata a se stessa.
Per questo motivo la madre non era potuta andare in ospedale quando, un mese prima del previsto, ad 8 mesi scarsi le si ruppero, neanche a dirlo, le acque. Nello stesso istante in cui la testolina di quella piccola creatura uscì dal corpo esausto della madre, il cielo chiuse i rubinetti e un raggio di sole fece la sua apparizione nella casa, squarciando le finestre umide.
“Questo è un miracolo del Signore nostro Gesù Cristo” ebbe a dire Angela, la sorella della madre che l’aveva assistita durante il travaglio.
“E qual è stato il primo miracolo di Gesù? Trasformare l’acqua in vino” urlò festante il padre che non si era lasciato impressionare per niente dall’evento, del resto era abituato a vedere certe scene, perfino più crude di questa, che a far nascere maiali e capre non ci pensava certo la cognata. Prese così una bottiglia di Recioto, la aprì e vi riempì un bicchiere. Poi si avvicinò al figlio ancora sporco del parto e, intingendo il pollice nel passito gli disegnò una croce sulla fronte. Il resto del vino lo bevve in un sol colpo. “Questo è un miracolo divino” e nessuno dei presenti osò chiedere a cosa facesse riferimento.
Il rumore della campanella connessa alla porta avverte dell’ingresso di altri clienti, tre giovani donne, una con un cappello di carta con sopra scritto in numero ventisette, intente, così pare, a festeggiare il compleanno di quest’ultima.
Il taverniere si ricorda allora che la strada del vino non è quella che collega le innumerevoli cantine agli immensi vigneti della sua zona ma è quella che dallo stomaco risale su fino alla testa e da lì alla bocca, ma nel percorso passa dal cuore che viene derubato di tutti i suoi segreti. Così non è mai la lingua che parla ma sempre il cuore.
Il calice quasi vuoto in mano a Toni fluttua allegramente come lo svolazzare di una farfalla disegnando ampi cerchi nell’aria. Ogni suo gesto trasuda sensualità. Poi fissando quell’ultima goccia di Soave prima di cacciarla in bocca, disse: “Io mi prendo quella che fa gli anni, tu le altre due”.