29 dicembre 2012

Non è tutto oro quello che luccica



Quando entrano in caserma gli ultimi due testimoni oculari chiamati a fornire la loro testimonianza su quanto assistito, sono quasi le diciannove e il caso pareva ormai archiviato, se non ufficialmente almeno nella sostanza, perché se ben ventitré persone, quarantacinque occhi in tutto, non trattandosi di un grossolano errore di calcolo o di una svista vera e propria ma di una semplice somma algebrica, nessuno con malformazioni genetiche come il possedere un occhio soltanto nel mezzo della fronte, ma il semplice avere una benda a cura di una forte congiuntivite per uno di quei sopra citati testimoni, se queste persone insomma hanno fornito la medesima ricostruzione dei fatti, si pensa che l’accaduto sia definito senza riserva.

Il maresciallo immagina di non impiegare più di cinque minuti con l’ultima coppia e allora, prima che essi entrano, compone il numero della moglie.

“Cara, tra un quarto d’ora esco dall’ufficio, tira fuori l’abito scuro dall’armadio e riponilo sul letto così sarò pronto in un baleno”.

I due testimoni nel frattempo, riferite le generalità all’appuntato preposto al caso, si accomodano sulle sedie poste davanti la scrivania del maresciallo, avendoli egli stesso invitati con un ampio cenno della mano.

Un colpo di tosse a schiarir la voce.

“Prego raccontatemi a grandi linee, quello che avete visto a proposito dell’incidente di stamattina”.

“Quella macchina pareva impazzita, ha attraversato l’incrocio con il rosso a una velocità folle, per quel pover’uomo non c’è stato scampo.”

Il maresciallo guarda ancora l’orologio per poi alzare lo sguardo verso il suo collaboratore, “Appuntato ha scritto tutto? Si metta agli atti che anche i coniugi Sallo hanno visto l’auto su cui viaggiava l’imputata guidare a forte velocità e investire, uccidendo sul colpo, il povero mendicante che ha come unica colpa l’essersi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, vi ringrazio per il vostro tempo, ora l’appuntato vi accompagnerà all’uscita”. Cerca di terminare alla svelta l’ultimo rapporto di questa estenuante giornata e poter dedicare la serata alla moglie e alla passione di questa: l’Opera. Lei glielo aveva anticipato la mattina, prima che uscisse per andare a lavorare: “Alla scala non aspettano i ritardatari, non fare come al tuo solito”.

Pensa che a darsi una mossa potrebbe persino mettere qualcosa sotto i denti.

Si sporge in avanti tendendo loro la mano ma i due coniugi stanno seduti composti, senza alcun accenno di commiato, fissando il maresciallo dritto negli occhi.

“Non abbia fretta di andare, Signor Maresciallo, non è tutto oro quello che luccica”.

Un mancamento investe il maresciallo che si abbandona inerme allo schienale della poltrona. Il suo volto pare infastidito come avesse udito le urla isteriche della moglie blaterare qualcosa a proposito del suo solito ritardo. Lo sguardo è invece catturato dalla telecamera di sorveglianza posta appena fuori il suo ufficio, si ricorda così di tutte quelle volte in cui lui e i suoi sottoposti hanno sbobinato intere videocassette per cercare di cogliere, a volte con scarsi risultati, anche un solo piccolo e insignificante particolare che li aiutasse a mettere insieme i pezzi per completare il puzzle. Prende così un bel respiro, si arma della dovuta pazienza e li prega di continuare nel racconto della storia cercando tuttavia di non dilungarsi troppo in futili particolari. Pensa in fondo che il panino del bar del teatro che mangerà di lì a breve non è poi così male. Si sa tuttavia che il mestiere del portinaio vive soprattutto per gli argomenti frivoli, e se per questi militari il tempo è molto importante, come abbiamo appena visto, che alcuni casi vengono risolti e così i colpevoli acciuffati solo pochi minuti prima che il loro aereo con destinazione ignota li porti al riparo del giudizio maestro, per i 2 uccellini cinguettanti seduti davanti al maresciallo paiono invece il pasto di una giornata.

Con la pazienza di una nonna che racconta una storia sperando che la calma riposta in ogni parola riesca ad ammansire anche il più scatenato dei nipotini, allo stesso modo la moglie del portinaio inizia a raccontare i dettagli di quell’ormai noto incidente, sortendo invece nel maresciallo lo stesso sentimento del nipotino irrequieto che scalcia la nonna da sotto le coperte perché non vuole dormire. La divisa militare tuttavia vieta di scalciare i testimoni oculari di un incidente stradale e così il maresciallo si mette in ascolto.

“Il Gianni abita nel palazzo dove noi lavoriamo come portinai”, dice la donna mentre indica il marito seduto al suo fianco.

“O meglio, ci abitava fino a stamattina quando è avvenuto il penoso investimento, si dice così?”, pronuncia lui rivolto alla moglie.

“Investimento sì, penso sia corretto caro”.

“Per favore, uno alla volta e guardate me quando parlate, altrimenti non ci capiamo per nulla, appuntato, scriva tutto mi raccomando”.

I due testimoni si guardano ancora una volta, senza parlarsi decidono che sia l’uomo ad aprire le danze, del resto da che mondo è mondo, è questo il ruolo che compete al sesso forte.

“Il Gianni lavorava come venditore per un’importante azienda nel comparto alimentare, era furbo e astuto, una volpe nel suo settore, sarebbe riuscito, come si suol dire per quelli bravi in questo campo, a vendere del ghiaccio perfino agli eschimesi. Poi però perse il lavoro perché l’azienda per cui lavorava andò in malora come accadeva spesso anche con le scatole di fagioli che vendeva e che ogni tanto finivano anche nella nostra dispensa. In breve tempo restò senza il becco di un quattrino. S’inventò quindi la professione del mendicante, pensi che si era fatto togliere un incisivo per apparire più buffo e per suscitare ancora più tenerezza nelle persone e rimediare magari qualche spicciolo in più. Lui sorrideva sempre, sorrideva a tutti e mostrava quella finestrella aperta nella sua bocca, il suo buon umore era contagioso come uno sbadiglio, a guardarlo ti veniva da sorridere. Nonostante tutto, sorrideva e salutava chiunque, chi gli dava soldi o solo qualcosa da mangiare, sorrideva anche a chi non aveva niente da donare, salutava chiunque, ricchi o poveri, cattolici o mussulmani, ragazzini o anziani”.

“Abbiamo inteso, prego continui, anche se non capisco cosa centri tutto questo con l’incidente”.

“Centra eccome Signor Maresciallo, centra eccome.” Dice la moglie a manforte del marito che continua come se niente fosse.

“Era garbato nei modi, conosco gente che se la mattina si alzava con la luna di traverso, allungava la strada per passare da quell’incrocio e raddrizzarla con il sorriso sdentato del Gianni”.

Il portinaio racconta nel dettaglio di come la gente abbia cominciato a riempirgli le tasche di elemosina, perché Il Gianni è diverso dai soliti mendicanti, perché se con tutti gli altri si è costretti ad abbassare lo sguardo ogni qual volta qualcuno di questi si avvicina alla macchina a chiedere due lire, che a non vedere la sofferenza ci si sente meno in colpa per la mancata carità, ben altra cosa sarebbe se fossero tutti come lui, perché non c’è sofferenza nel suo sguardo, perché lui ti sorride e ti mette a tuo agio, non intacca i sensi di colpa, non chiede nulla, sta lì e saluta, sorride e aspetta, tutto qui.

“Ah se fossero tutti come il Gianni”, e qui il portinaio conclude con un sorriso amaro.

“Vi ringrazio per la vostra deposizione, signori, farò in modo di infliggere la massima pena possibile a quella donna che ha ucciso una così brava e sfortunata persona, chiedendo qualche favore potrei riuscire a fare avere l’ergastolo a quella sconsiderata che forse lo ha ucciso per derubarlo della tanto meritata, mai come in questo caso, elemosina.”

Se ha capito la natura di quei due portinai, spera con queste parole di saziare la fame tipica delle iene e rabbonirle potendo così levare i tacchi dalla caserma. La lancetta dei minuti parlava chiaro, non c’era tempo nemmeno per una doccia, forse giusto una rinfrescata veloce prima di affogare nel profumo per non dare l’idea di aver avuto una giornata difficile al lavoro. L’immagine della moglie silenziosa non lo rallegrava affatto perché sa che il silenzio di una donna arrabbiata è un’arma ancora più dolorosa.

“Pazienti ancora un poco Signor Maresciallo, adesso arriva il bello”.

Il cuore del maresciallo smette di battere per qualche attimo, non cade dalla poltrona solo perché i braccioli lo bloccano in posizione. Il bambino che tanto ha scalciato la povera nonna ha esaurito tutte le energie e si arrende ora beato tra le sue braccia, attento finalmente alla storia bisbigliata.

“Dopo un primo consistente flusso di soldi elemosinati, la gente ha preso a rispondere al sorriso del Gianni con un sorriso di rimando e niente più, neanche gli spiccioli del resto del caffè del bar. Nemmeno più un ciao come va oggi, che a tirar giù il finestrino entrano i fumi di scarico delle macchine in sosta al semaforo e dopo un epico momento di gloria ora i soldi guadagnati dal suo buon umore non bastano più”. La portinaia ha colto nel segno e l’attenzione del maresciallo lo ridesta dal fissare l’orologio.

“Si sa che i grandi sopportano di più lo stomaco vuoto, ma il figlioletto del Gianni deve pur mettere qualcosa sotto i denti e così costringe la moglie a, come si può dire, a…”

“Signor Maresciallo, quello che mia moglie vuole dirle, ma che per decenza non ne è capace, è di come Il Gianni abbia costretto la moglie ad andare per strada a cercar clienti.”

“A mendicare anche lei?”, chiede incredulo il maresciallo.

“Non proprio Signor Maresciallo, si vede che lei è una persona a modo, Il Gianni, quel villano, l’ha costretta a battere, a prostituirsi”, dice la portinaia questa volta con molta meno decenza dimostrata solo pochi attimi prima.

Il maresciallo dimostra il motivo per cui riceve tredici mensilità dall’arma dei carabinieri e il suo intuito gli fa chiudere il cerchio. Il fatto che la vittima fosse senza documenti aveva reso impossibile il collegamento con la donna alla guida dell’auto assassina. Gli otto rintocchi dell’orologio a cucù lo portano dalla moglie esausta nell’attesa. Si è messa al volante della macchina regalata dal marito per farsi perdonare di uno dei suoi proverbiali ritardi, la immagina passare l’incrocio a folle velocità superando il rosso del semaforo perché in ritardo per lo spettacolo. La sente gridare, ancora una volta, mentre investe quel pover’uomo, questa volta vestito non di stracci ma con la divisa da Maresciallo dei Carabinieri. I suoi occhi, rivissuta la scena del crimine, tornano vivi.

“Appuntato ormai abbiamo capito com’è andata, non faccia nulla per oggi, domani parleremo con la moglie del Gianni, le troveremo un bravo avvocato e con le attenuanti del caso e un po’ di pazzia dovuta alla miseria, vedrete che il tutto finirà a tarallucci e vin santo.”

Saziate le iene, esce dall’ufficio dirigendosi a grandi falcate verso l’ascensore che lo porta al parcheggio nel seminterrato. Sale in macchina e a folle velocità si dirige verso casa.

La strada lo conduce proprio all’incrocio in cui è avvenuto l’omicidio quella mattina. Il piede destro autonomamente si spalma sul pedale del freno. Il Maresciallo accosta la macchina, scende e si dirige verso la zona in cui pensa che sia avvenuto l’omicidio da parte di quella povera donna. Si fa il segno della croce perché non sta a lui giudicare le anime. Si china verso un mazzo di fiori, posato probabilmente nel punto in cui deve essere passato a miglior vita, o a peggiore se esiste davvero una giustizia divina. Prova pena e timore allo stesso tempo. Si ricorda di tutta quella gente che gli voleva bene ma si sorprende del fatto che ci sia un solo mazzo, così scruta tra i fiori sperando di trovar qualche biglietto che ne riabiliti il nome. In fondo è conosciuto ai più come una brava persona che dona allegria e amore. Non si sorprende, tuttavia, quando si accorge che i fiori del gianni sono di plastica.

11 dicembre 2012

Weeping Willow



Se ne sta piangente su quel prato a fissare tutto il tempo l’enorme quercia ergersi a metà del bosco. Un salice di languidi sospiri che cadenzano tragicamente le sue giornate.

Ammira lo svettare di questa imponente creatura e quel venticello che tanto lo irrita smuovendone le frange sembra temere invece quell’essere sontuoso, non osa nemmeno avvicinare l’enorme tronco che pare tutt’uno con il terreno, non spira tra gli immobili rami protesi verso il cielo. Su di lui trovano rifugio specie animali di ogni genere e forse chissà, persino Dio tanto pare alto. Pavoneggiare di chiome felici sopra ogni cosa.

Nessuno trova riparo invece sotto di lui, né uccellini, né gatti, ignorato persino dai topolini. A farle compagnia quell’odioso venticello buono solo a spettinarlo.

“Ah quanto vorrei essere diverso”.

La tristezza dei suoi rami tuttavia lo salva da una tromba d’aria come mai se ne sono viste prima d’ora in quei luoghi. I suoi rami si piegano e seguono lo spirare del vento. Ne esce con qualche ramo appena sfogliato. Ben altra sorte attende invece l’enorme quercia issatasi tanto in alto, così bella all’apparir ma fragile nelle radici. La prima folata le è subito fatale.

Ora gli uccellini hanno un altro rifugio, il venticello amplifica il loro cinguettare che attira una giovane ragazza che corre tantissimo. Lui le ha preparato un’altalena con i suoi rami e un seggiolino in legno consunto e levigato a far da seggiolino e lei finalmente si ferma.

Se ne sta sempre piangente su quel prato ma ora felicemente frastagliato dal vento.


30 novembre 2012

Il mio sistema di difesa

Oggi sorrido perchè ho razionalizzato che, malgrado tutte le delusioni amorose, tutte le amicizie finite miseramente, tutte le belle speranze tornate a dormire mentre io mi ero già alzato da un pezzo, malgrado tutto insomma, quello che tengo stretto a mente, dopo che il tempo ha livellato picchi di sentimenti troppo estremi così come il mare con gli spigoli di sassi troppo appuntiti, nella maggior parte dei casi sono solo belle parole.

E’ venerdì, il mondo oggi è migliore.





23 novembre 2012

La lezione di matematica





La lezione era cominciata già da un quarto d’ora ma Federica non aveva ascoltato nulla di quello che stava dicendo la professoressa di analisi matematica del politecnico.
“Carlo, cos’è che sta spiegando oggi?”.
“La discontinuità nelle funzioni, Chicca, dovresti stare attenta, l’esame di settimana prossima parla solo di questa roba qui”.
“Sembrerebbe interessante questa lezione sul rompere la monotonia, invidio la forza di queste funzioni”.
“Non credo si tratti di questo comunque”.
“Allora vedi di stare attento e imparare a fare gli esercizi così poi me li passi da copiare”.
Considerando la media degli studenti seduti in quell’aula del politecnico, non ci sarebbe da sorprendersi per le parole uscite dalla bocca della ragazza. Ad eccezione delle prime 4 file e di qualche ritardatario ben intenzionato che ha trovato posto solamente nelle retrovie infatti, il resto della classe è attento si, ma chi ad importunare la vicina carina con richieste di chiarimenti di formule e passaggi matematici mai seguiti, chi ad organizzare l’imminente weekend a base alcolica sperduto su quella baita in montagna trovata a basso prezzo su internet, chi a sfogliare il giornale universitario documentandosi sulle procedure da seguire per poter presentare la domanda di Erasmus. Ma per chi conosce Federica questa frase rappresenta la massima espressione di ribellione a cui ci ha abituati fin d’ora.
Carlo la stava fissando a occhi spalancati. “Non credo a quello che stai dicendo, tu stai diventando matta e io non sarò lì a difenderti quando tua madre ti ucciderà, sappilo”.
Estrasse degli evidenziatori dall’astuccio trivellato di spille raffiguranti le bandiere di quasi tutte le nazioni. Aveva cominciato a giocherellarci, allineandoli alla sinistra del foglio ancora bianco steso davanti a lei. L’azzurro con il giallo, sotto questi l’arancione con il verde. Dentro ci vedeva un paesaggio con l’azzurro del cielo e il sole splendente, un tulipano arancione dal lungo stelo verde brillante. “L’olanda è piena di tulipani”, aveva persino sussurrato.
Con il pensiero era tornata a qualche mese prima, quando aveva dovuto scegliere a che università iscriversi, o meglio, quando aveva deciso di seguire le indicazioni della madre su che strada intraprendere.
“Dopo il classico, per dare continuità al tuo processo di formazione, la scelta giusta sarebbe quella di orientarsi verso un’università a indirizzo umanistico, ma noi siamo dotate anche di buon senso, e mai come in questo momento di forte crisi economica ne abbiamo bisogno, gli ingegneri sono quelli che una volta laureati, trovano più facilmente la sistemazione nel mondo del lavoro e questo ci suggerisce di iscriverci al politecnico, a indirizzo gestionale, sarà più difficile certo, ma affronteremo le difficoltà insieme, come abbiamo sempre fatto, già ti vedo amore mio a capo di una multinazionale, sei d’accordo, vero?”.
“Certo madre, come potrei non esserlo, pensi proprio a tutto, sei così, così”.
“Superlativa?”, la figlia aveva assentito con la testa mentre deglutiva, con la saliva, l’opprimente che l’avrebbe meglio qualificata. La madre si era avvicinata avvolgendole il viso con le mani e ricordandole, per l’ennesima volta, di come fosse la cosa giusta per lei prendere una laurea, “E già che ci siamo lo facciamo con il massimo dei voti. Io ho dovuto rinunciare alla carriera per colpa di tuo padre che mi ha messo incinta di te troppo presto, Dio solo sa quanto ho sofferto per questa cosa. Ma tu hai la possibilità di diventare un personaggio di spicco e noi questa volta non falliremo”.
Il suo compagno di banco aveva scosso la testa in segno di resa.
“Sarà meglio che segua la lezione, altrimenti ci bocciano entrambi”. Non riusciva a varcare le colonne d’Ercole della sua mente.
Già al tempo del liceo di matematica Federica non ci aveva mai capito molto, ma le era sempre andata bene perché studiava tutto a memoria, o meglio, studiavano, lei e la madre. Ripetevano le cose fino a che non erano state perfettamente memorizzate. E come le ripeteva a casa, le ripeteva in classe e i 10 sul registro dei professori erano margherite sui prati nel mese di maggio.
Solo una volta aveva preso 6, ma la colpa era di un certo Andrea, un piccoletto combina guai della sua classe che le aveva lanciato con l’involucro della biro, a mo’ di cerbottana, delle palline di carta masticata tra i capelli. Le aveva fatto perdere tempo, oltre che pazienza, durante un compito in classe, sempre di matematica, e così non era riuscita a risolvere un’equazione. Come uno di quei cantanti di una qualche rock-band giovanile che suona per la prima volta alla festa del paese e si mette a urlare con tutto il fiato che ha in corpo come se stesse cantando, senza microfono né amplificatori né casse, davanti a centomila persone, costretto ad arrivare con la sua voce, e solo quella, fino all’ultimo spettatore laggiù in fondo dato che il biglietto, sfortunato lui, lo ha pagato come tutti gli altri ed ha perciò diritto allo stesso trattamento di quelli davanti, con la stessa potenza canora la madre ripassò Federica aggiungendo, oltre alla strigliata, l’onere di svolgere per ben dieci volte la stessa equazione lasciata a metà nel compito in classe. Come se non bastasse, era arrivata a chiamare la maestra di danza dicendole che la figlia aveva la broncopolmonite e che non sarebbe andata a lezione per l’intera settimana, almeno. “Te la faccio vedere io la danza, a te e a tuo padre che insiste nel volertici mandare, tu devi solo studiare”. Non che avesse pianto fiumi di lacrime per la questione della danza, a lei neanche piaceva. Era stato il padre che aveva insistito affinché facesse qualcosa, una qualsiasi attività fisica per distrarle la mente, che le servisse per intrattenere dei rapporti sociali con i coetanei al di fuori della scuola. Era uno strazio per lui vederla sempre china sui libri, ma non poteva dire nulla in casa per via di quel debito con la moglie che ancora lo perseguitava.
Si era diplomata con 100 e lode per la gioia della madre. Avremmo fatto un peccato d’altronde, se avessimo pensato diversamente solo per un piccolo incidente di percorso. Dal maggio di quello stesso anno tuttavia, qualche crepa aveva cominciato ad affiorare nel rapporto con la madre, e se prima erano solo interne e ben cementate dall’arrendevolezza della figlia, ora che è novembre e cominciano le prime gelate notturne, l’acqua piano piano vi ci entra e gelando le allarga sempre più. A far bene attenzione, in un momento di silenzio potremmo anche sentire, tendendo l’orecchio, lo scricchiolio del loro emergere alla superficie.
La ragazza aveva trovato un metodo per scaricare la tensione in eccesso, ossia agendo nel modo in cui avrebbe fatto arrabbiare la madre, ma senza che lei lo sapesse. Tanto per intenderci, se andassimo indietro di qualche anno e capitassimo in cucina nel momento in cui Federica stava prendendo dalla credenza uno di quei biscotti ripieni di mela e fosse arrivata all’improvviso la madre, che già all’epoca non la perdeva di vista nemmeno per un minuto, non sarebbe sicuramente accaduto, come invece capitava di solito, che avrebbe rimesso a posto i biscotti tanto agognati chiedendo poi scusa alla madre, ma se ne sarebbe nascosto uno in tasca, anche se poi scusa l’avrebbe detto in egual modo. Malgrado questa sua valvola di sfogo la pressione esercitata della madre ebbe il sopravvento.
“Un giorno o l’altro finirò per scoppiare”, aveva detto la ragazza, “E chissà allora quanti cocci ci saranno da raccogliere”, salvo poi mettersi la mano alla bocca sperando che quelle parole uscite senza controllo in un momento di guerra interiore non avessero raggiunto le orecchie della madre.
Quella tra l’altro aveva cominciato a fiutare un certo cambiamento nel comportamento della figlia. All’inizio aveva pensato ad un innamoramento, il primo, avvenuto nonostante tutti i loro sforzi e ammonimenti, prima governativi perché la legge sovrana non consente certe cose a minorenni, poi apostolici perché il buon Dio che tutto vede e tutto sa non perdona chi pratica quelle attività fuori dal matrimonio, infine per una semplice questione di pulizia, per tenerla lontana il più possibile dagli stupidi ragazzetti che pensano soltanto a cacciare le loro luride mani insolenti in posti che devono rimanere immacolati almeno per altri 18 anni. Si sa come i genitori siano sensibili a certi argomenti. Aveva cominciato a prestare un’attenzione ancora maggiore a questa già martoriata creatura e come per la maggior parte delle bestiole che, sempre più strette nella morsa del predatore, sono capaci di gesti estremi e impensabili, così lei ebbe l’ardire di pensare l’impensabile ossia andarsene da casa per un anno intero a visitare il mondo, dopo la maturità sia chiaro che arrivati oramai a questo punto sarebbe stato da stupidi non concludere gli studi.
Aveva pensato a tutto, al giro che avrebbe fatto, ai posti che avrebbe visitato, al periodo migliore per soggiornare in quello e quell’altro luogo, ai ristoranti dove avrebbe voluto lavorare, anche da spela patate per raggranellare qualche spicciolo e non pesare troppo sulle spalle della famiglia. Pensava che se avesse fatto gli occhi dolci a suo padre, lui non avrebbe resistito e l’avrebbe lasciata partire dandole magari un po’ di soldi. Sua madre non gliel’avrebbe perdonato ma in un anno le cose cambiano e anche di molto. La sua mancanza sarebbe stata un incentivo al perdono nel momento in cui, l’anno seguente, sarebbe rincasata e si sarebbe iscritta a ingegneria gestionale, laureandosi poi con il massimo dei voti. Dopotutto era maggiorenne e nessuno poteva impedirle di partire. Avrebbero viaggiato lei e quella sua amica dalla chioma dorata, lunga appena per poterci avvolgere il collo, con capelli che paiono riccioli di fuoco esplosi in ogni direzione da uno di quei falò a ferragosto sulla spiaggia, una girovaga per la scuola vestita da hippie degli anni ’60, ribelle, spensierata, esorbitante in leggerezza. L’opposto carattere le aveva calamitate l’una contro l’altra. Si chiamavano in continuazione anche dopo che erano tornate a casa. Non potevano infatti sbrigare a scuola tutte le faccende organizzative del viaggio perché frequentavano classi diverse. Una volta erano arrivate a chiamarsi ben 15 volte, dalle 2 di pomeriggio, orario in cui Federica rincasava da scuola, alle 22.30 di sera quando giungeva l’ora di preparare lo zaino per il giorno successivo. Il gatto, l’unico membro della famiglia in grado di muoversi nel buio senza disturbare il leggerissimo sonno della madre, aveva sentito con il suo udito sopraffino certi discorsi persino alle 3 di notte, fatti al riparo di un lenzuolo. Si sa che l’animale non ha il dono della parola e quindi sarebbe stato comunque impossibilitato a spifferare tutti ai genitori, ma anche se avesse potuto, non l’avrebbe mai fatto perché stava dalla parte della ragazza, forse per tutte le volte che l’aveva consolata con le sue fusa o per via di tutte le maledizioni che le tirava invece quella donnaccia ogni volta che preparava le alici in padella, 5 a testa, 15 in tutto e il micio trovava sempre il modo di rubarne almeno una, spaiando così le porzioni. E se è vero che la curiosità uccide il gatto, povero lui, poco ci è mancato che anche la madre non facesse la stessa fine. In una di queste telefonate non era riuscita a trattenere l’impulso di alzare l’altra cornetta e, passato indenne il momentaneo cedimento muscolare per quello che aveva appena udito andò, ora giustamente, fuori di senno. Si fece raccontare tutto e Federica fu messa a regime di rigore, con il coprifuoco esteso a tutta la giornata, a tutta la settimana, a tutto il mese fino a che non fossero finiti gli esami di maturità e forse prolungato a tutta l’estate, con tanti saluti al viaggio organizzato. Se fosse avvenuto in un qualsiasi momento passato della sua vita, la sola organizzazione mentale del viaggio se la sarebbe fatta bastare, ma non ora, non in questo momento. Alla sua anima ora divenuta irrequieta il solo pensiero non bastava più.
“La discontinuità è una proprietà molto importante in una funzione, bisogna solo vederla come un’opportunità e non come un problema. In futuro, per chi di voi diventerà ingegnere dei materiali, vi servirà per calcolare, per esempio, il punto di rottura di un materiale e intervenire su di esso prima che succeda. La lezione per oggi è finita, mi raccomando preparatevi bene per l’esame di settimana prossima”.
Sentì un brivido lungo la schiena. Radunò le proprie cose, mise l’olanda dentro l’astuccio e senza neanche salutare il suo compagno di banco, corse a casa. “Mamma, devo dirti una cosa”.